Efrem Sabatti - Psicologo a Brescia

Percepisco dunque reagisco: una nuova prospettiva di intendere i disturbi psicologici


Percepisco dunque reagisco: una nuova prospettiva di intendere i disturbi psicologici

In quanto esseri umani viventi e senzienti, percepiamo il mondo attraverso i sensi e, sulla base del significato che attribuiamo a determinate situazioni reagiamo di conseguenza.



In altri termini non ci relazioniamo con la realtà, ma con l'interpretazione che ne diamo. Non ci nutriremmo mai di un dolce cucciolo che scorrazza saltellando nel prato, ma mangiamo costolette di agnello (mentre ci nutriamo percepiamo cibo e non l'animale, a meno che qualcuno non ce lo faccia notare). Per la stessa ragione due persone culturalmente diverse possono vedere in un verme o un insetto disgustoso e fuggire terrorizzate o un prelibato alimento e divorarlo con piacere. Questa riflessione su come la percezione influisca sul nostro modo di reagire all'ambiente, ci permette di comprendere che ciò che percepiamo come “problema” non è il fatto in sé, ma come viene percepito e quale valore di importanza gli viene attribuito. In altri termini, se “uno” sculaccione viene minimizzato può restare un episodio privo di particolari rilevanze o seguiti. Viceversa, se allo sculaccione si attribuiscono importanti valenze, ruoli centrali nella genesi di problemi successivi nella vita della persona, ecco che il rischio di tale visione può essere quello di portare la persona a rileggere gli avvenimenti del proprio passato alla ricerca delle presunte cause del problema attuale. In altri termini la persona può convincersi che, ad esempio la sua timidezza sia riconducibile a quel particolare episodio dell'infanzia. In un certo senso è vero che noi siamo il prodotto di ciò che abbiamo attraversato nella nostra vita, ma più precisamente non siamo il prodotto di ciò che è successo “realmente”, ma di come questo è stato percepito e interpretato. In altre parole una persona che interpreta uno sculaccione come un atto di offesa e di violenza del proprio genitore, crescerà probabilmente con la sensazione di non essere stata amata, vedrà una successiva richiesta dei genitori di proseguire l'attività della famiglia come un tentativo di controllo sulla sua vita o, al contrario, la proposta di non continuare l'attività e di fare ciò che preferisce come un atto di disinteresse o di sfiducia, interpretando questa proposta come un atto denigratorio. Al contrario una persona che allo sculaccione da il significato di un atto educativo forte (metafora che a volte la vita non insegna attraverso spiegazioni e motivazioni, ma colpendo in maniera diretta senza tanti preamboli) vivrà quel gesto come una sorta di vaccino contro i futuri colpi ben più forti, una piccola scottatura preventiva per evitare di bruciarsi più pesantemente in futuro. Comprenderà ad esempio che nella vita ci sono delle cose più grandi di lui, che non può controllare, regole che non può eludere, ecc... Questa stessa persona potrà quindi vivere la proposta della famiglia a cercarsi un altro lavoro come un'opportunità o, al contrario, la richiesta di lavorare nell'azienda di famiglia come un atto di stima. Personalmente ho avuto esperienze di terapia con persone arrabbiate con i propri genitori perché erano stati (secondo loro) troppo duri e rigidi e ciò le aveva rese infelici. D'altro canto però ho incontrato altrettante persone comunque arrabbiate con i propri genitori perché ritenuti troppo protettivi, troppo buoni, e ciò aveva impedito a queste persone di sviluppare una buona capacità a fronteggiare le situazioni avverse, rendendole comunque infelici. Se si considera il problema in questa ottica, non si può che incorrere in un dilemma paralizzante: qual'è il metodo educativo migliore se essere buoni può condurre a disastri, ma se essere severi può condurre ad altrettanti disastri? La risposta “nella giusta misura” non ci risparmia dalle infinite disquisizioni sul concetto di “giusto”, perché di fatto questo risulta essere estremamente soggettivo. Se invece vogliamo risolvere il dilemma è l'ottica che diviene importante modificare. Se l'attribuzione del problema è riferita ai fatti, allora i responsabili sono le persone che a quei fatti hanno partecipato attivamente e il vissuto della persona è di vittima della situazione. Viceversa, se si comincia invece a considerare che il problema è stato nella percezione negativa dell'evento, ecco che è il soggetto a diventare responsabile del suo “destino”, perché risiede in lui la responsabilità sia di mantenere una percezione di sé svalutante e penalizzante, sia, al contrario, di sviluppare una nuova possibilità di percepirsi (e di percepire le situazioni) in modo completamente nuovo. Ribadendo è opportuno comprendere e ricordare che non è il passato “reale” ciò che influenza,ma come è stato percepito. Indipendentemente dalle esperienze problematiche del passato ciò che risulta trasformativo è quello che la persona mette in atto nel presente, perché il passato è immodificabile. Nell'ultimo periodo storico, l'evoluzione della psicoterapia ha dimostrato sempre di più come ciò che permette di superare una problematica non sia la comprensione dell'origine della stessa, ma l'interruzione del comportamento che la persona ancora nel presente mette in atto continuando in questo modo a riperpetrare il problema. La visione che si debba andare alla causa remota del problema e che il percorso terapeutico debba essere necessariamente doloroso è frutto di due importanti condizionamenti culturali che permeano il pensiero occidentale al quale apparteniamo: il ragionamento lineare logico basato sulla causaeffetto (tipico della scienza e che affonda le sue radici nell'illuminismo e nel Positivismo) ed il concetto di sofferenza come strumento necessario per raggiungere il “premio finale” della felicità, della libertà, del benessere, tipico della visione Cristiana Cattolica. Come afferma Watzlawick però “per quanto le correnti classiche della psicoterapia differiscano e siano spesso tra loro in contraddizione, esse hanno una ipotesi in comune: che i problemi si possano risolvere soltanto scoprendone le cause. Questo dogma è fondato sulla credenza in una causalità lineare e unidirezionale, che scorre dal passato al presente, e che a sua volta genera l'apparentemente ovvia necessità di raggiungere un insight (conoscenza n.d.a.) sulle cause prima che possa avvenire un cambiamento.” A ciò si accompagna l'idea tipica della scienza razionalista che per eliminare il problema sia necessario comprenderne la causa. Se ciò si dimostra efficace per le scienze cosiddette naturali (o esatte) come la matematica e la chimica dove è possibile uno studio standardizzabile e ripetibile, non si può dire altrettanto per le scienze umane. Infatti l'idea del capire le cause del perché una persona ad esempio ha paura di volare, non elimina poi la paura di volare, come invece la logica sottostante ipotizzerebbe. In altre parole il focus per risolvere il problema risulta più utile quando si orienta sul “come” posso risolverlo anziché sul “perché” mi è venuto. Parafrasando Watzlawick, l'ipotesi che si debbano sempre trovare le cause prime per risolvere un problema (arrivare alla consapevolezza o insight) può portare non solo alla ricerca ostinata delle ragioni prime, anche quando magari la necessità della persona è di trovare la soluzione per stare bene e non le ragioni del perché sta male, ma può portare anche al rischio di entrare in una sorta di fondamentalismo teorico che impedisce di mettere in discussione la fondatezza della propria teoria che risulta sempre vera. Se i problemi del paziente diminuiscono (o spariscono del tutto) a seguito dell'insight sulle possibili cause, ciò prova la correttezza e l'efficacia di questo approccio. Se, d'altro canto, non c è alcun miglioramento, ciò prova che la ricerca delle cause nel passato non è stata ancora spinta abbastanza in profondità e indietro nel tempo. L ipotesi è valida in ogni caso.” A questo punto è opportuna una doverosa precisazione. Non intendo dire che non sia utile ascoltare il resoconto dei vissuti di un paziente rispetto a ciò che egli percepisce come importante del suo passato, perché questo offre la possibilità di comprendere il suo sistema percettivo e come lui si comporta di conseguenza. Ciò che però in questa ottica diviene importante comprendere dai resoconti della persona è COME percepisce il problema e COSA FA per reazione, perché molto probabilmente sono questi comportamenti che mantengono il problema anziché estinguerlo. Per essere ancora più chiari, se una persona soffre di fobia sociale, è relativamente utile ai fini del superamento del problema scoprire se la paura di questa paura deriva da un problema di educazione genitoriale, da un trauma scolastico, da una brutta figura fatta in pubblico. Ciò che è importante comprendere è come la persona, nonostante siano passati anni, continua a mantenere vivo il problema, anche se sono completamente cambiate le situazioni. Molto spesso si scopre che la persona, nel tentativo di cercare di stare meglio, mette in atto proprio quelle azioni che invece continuano a mantenere vivo il problema. Come affermava O. Wilde, spesso è attraverso le migliori intenzioni che si arriva ai peggiori risultati. Una cosa è invece fondamentale. Anche se si hanno ipotesi che ci siano traumi precedenti è essenziale evitare di porre domande che involontariamente orientino l'attenzione della persona e la sua credenza a pensare che forse è avvenuto qualcosa di più grave di ciò che pensava. Come fa notare Watzlawick questo atteggiamento ha purtroppo creato delle rivisitazioni traumatiche del passato di alcune persone. Molti analisti, sulla base delle ipotesi psicodinamiche che i disturbi dell'età adulta affondassero le radici in episodi traumatici dell'infanzia (e in molti casi fossero il risultato di abusi nell'età infantile), con l'intento di aiutare il paziente a farli emergere formulavano domande tese a capire se ci fossero ricordi di particolari situazioni “ambigue” di “coccole un po' particolari”, creando involontariamente dei dubbi nei loro pazienti. Ripeto che spesso il processo è involontario. Vi riporto qui di seguito un ipotetico dialogo tra un terapeuta e una paziente per evidenziare come spesso non c'è la volontà di influenzare il paziente, ma poiché "è impossibile non comunicare" ciò avviene comunque. L'analista, che ha la sua ipotesi del trauma infantile chiede "mi racconta che tipo di rapporto aveva con suo padre? " (il messaggio che viene ricevuto dalla paziente è che questo argomento è importante e che, dal momento che lei si è rivolta al terapeuta per un problema, questa domanda gli fa pensare che il terapeuta ritenga che questo possa c'entrare). La paziente magari risponde "bene, non ho ricordi di particolari problemi, anzi. Mi ricordo che giocavamo insieme, mi coccolava molto, mi abbracciava". Il terapeuta " ah, la abbracciava? la coccolava? Interessante ..." (il fatto che il terapeuta abbia posto l'attenzione su questi dettagli comunicano alla paziente che "forse" c'è qualcosa che non va in quello che fino a quel momento le sembravano innocenti manifestazioni di affetto. La paziente "si, mi abbracciava ... come penso fanno un pò i genitori, ma ero piccola, non mi ricordo proprio bene " Il terapeuta "quindi ha dei ricordi confusi, poco chiari" (questo genere di considerazione instilla il dubbio che il non ricordare chiaramente forse è dovuto a qualcosa di "brutto" che si è cercato di dimenticare). La paziente "Ma cosa intende dire? che ho dimenticato perché ..." Il terapeuta "spesso le nostre difese rimuovono qualcosa che è intollerabile. A volte se non c'è un ricordo di qualcosa è perché il contenuto è doloroso (anche se a volte non si ricorda per mille altre ragioni)". La paziente "Mi ricordo che mi baciava ... che mi teneva seduta sulle sue ginocchia" (iniziando ad avere sempre più il dubbio che quelli che lei percepiva come gesti d'amore fossero in realtà qualcosa di più subdolo. Il terapeuta "la baciava e la teneva sulle sue gambe ..." La paziente "Ma lei crede che ..." Il terapeuta "Non sto dicendo nulla ... solo che, dal momento che lei ha un problema di relazione con gli uomini, volevo capire che ricordi aveva di suo padre. Ma lei ha dei ricordi confusi ..." e il dubbio dilaga. Il dubbio porta a rimettere in discussione e a ripensare che forse azioni normali quali sedersi sulle ginocchia, dormire con il genitore, o fare il bagno insieme, siano state qualcosa di più grave e che l'inconscio ne ha addolcito o rimosso il ricordo per proteggere la psiche da un trauma. Secondo Watzlawick quindi l'ipotesi che certi problemi siano connessi ad abusi, porta ad indagare la presenza di certi ricordi in questa direzione. Il fatto che magari non si trovino tracce di tali abusi, anziché ritenere che magari non ci sono stati, può portare a far sorgere il dubbio che siano stati rimossi. Elizabeth Loftus (1995, p. 20), nel suo articolo molto interessante (e naturalmente eretico) Remembering Dangeorusly, si riferisce a questi ricordi come a «ricordi che non esistono fino a che una persona si imbatte nella terapia». Da qui Watzlawick sottopone un ulteriore dubbio che per chi si occupa del benessere psicofisico di una persona è sempre opportuno tenere presente “la terapia recupera dei ricordi di traumi o, indagando con domande orientate, rischia inconsapevolmente di crearli?”. Al di la di questo legittimo dubbio, può essere opportuna una ulteriore domanda “una persona che, oltre al suo problema, ha il sospetto di avere subito qualcosa di molto più grave, sta meglio o sta ancora peggio?”. Questa riflessione mi appare doverosa soprattutto perché non è necessario volere il bene di una persona per poterglielo dare effettivamente, perchè spesso, per riprendere ancora una volta le sagge parole di Wilde “è con le migliori intenzioni che si ottengono i peggiori risultati”. 


BIBLIOGRAFIA


-E. Sabatti "Come sopravvivere al proprio cervello"ed. Cavinato international, 2014

- G. Nardone “Correggimi se sbaglio”, ed. Ponte alle Grazie, 2005

- G. Nardone “Manuale di sopravvivenza per psico-pazienti: come orientarsi nella giungla delle terapie della mente” ed. Tea, 2011

-P. Watzlawick “Istruzioni per rendersi infelici”, ed. Feltrinelli, 1997

- P. Watzlawick “Guardarsi dentro rende ciechi” ed. Ponte alle Grazie, 2007

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